Qualche giorno fa – quando si dice il lento lavorìo della memoria – ho collegato due fatti che, presi a sé, avevano poco significato ma che, messi assieme hanno sviluppato una potenza deflagrante.
Il primo fatto.
Il mio ufficio è situato all’interno di Palazzo Montecatini, a Milano. Si tratta di un edificio progettato da Giò Ponti nel 1935, in piena epoca fascista, bell’esempio di architettura razionalista.
Quando ho iniziato a lavorare qui, circa un anno fa, ignoravo completamente tutto questo.
Semplicemente mi piaceva, ne ammiravo l’austerità la bella facciata di marmo verdognolo punteggiata dal vetro delle finestre.
Il secondo fatto.
Nel 1954 quarantatre operai muoiono nella miniera di Ribolla a causa di un’esplosione. Teatro del disastro è una miniera della Montecatini; Bianciardi e Cassola documenteranno la tragedia nell’inchiesta dal titolo “I minatori della Maremma”. La solenne incazzatura di Bianciardi per l’indifferenza con cui l’azienda aveva archiviato il grave incidente è all’origine – nella finzione – della venuta del suo alter ego a Milano, con il preciso scopo di far saltare in aria – non è una metafora - il simbolo di quel potere economico distante e inumano.
E il simbolo qual è?
Proprio il palazzo della Montecatini, che Bianciardi ribattezza “il torracchione”, felice sintesi di disprezzo e ironia tutta toscana.
Per un curioso artificio della memoria, dicevo, ho collegato il primo fatto al secondo fatto e il risultato è che io lavoro all’interno di quel torracchione che Bianciardi voleva far scoppiare nel 1962.
Lui ci provò con scarsa volontà e pochi risultati. Si limitò a prendere contatti con una dirigente dell’allora Montecatini che era stata messa da parte in quanto sindacalista – oggi si direbbe mobbizzata – e isolata in un ufficio periferico, irraggiungibile dai più.
Mi sento inconsapevolmente colpevole. Dovrei forse provare anch’io a progettare lo scoppio di questo luogo tanto bello fuori quanto orrendo dentro.
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