Giuro che dopo questo post la smetto.
Seguirò gli ordini di Sua Nanità Silvio e mi trasformerò in men che non si dica in una inguaribile ottimista.
Che sforzo però. Chi riesce a essere ottimista di stì tempi merita un bacio in fronte, forse anche di più. Prendete stamani. Sono in attesa del solito tram, alla solita ora, fra le 8.30 e le 9.00. Ora di punta si chiama questa, quando dovrebbero passare tanti mezzi pubblici da stenderti sui binari, o sull'asfalto. E invece, come al solito, il mio solito tram non passa. Non c'è sciopero, non c'è la neve, non c'è la pioggia, nessuno si è gettato sotto le rotaie e il tram non passa. C'è pure la beffa dell'avveniristico cartellone che ti segnala i minuti di attesa - 6 min, 4 min, 26 min (sì, capitato anche questo) - che Roma invidia tanto a Milano. Stamani l'avveniristico cartellone non segna neanche i min di attesa. Siamo allo stato d'emergenza.
Decido quindi di riprogrammare il percorso e di prendere la metro a Famagosta. Per arrivare lì devo salire sulla 95 che... ma vabbè questa è un'altra storia. La 95, assurdamente, arriva in pochi minuti ed eccomi a Famagosta quasi felice - ci vuol poco, di stì tempi - che timbro il mio biglietto e mi immagino seduta alla scrivania finalmente in orario.
Non potevo immaginare, invece, il seguito della storia.
Oltrepassato di due metri il tornello, giusto il tempo per svoltare a destra e imbucare le scale, vedo davanti a me un'orda di poveri disperati ammassati sulla banchina, e sono talmente tanti che dalla banchina si riversano sulle stesse scale che mi accingo a scendere. Mi prende la rabbia, con me stessa per aver cambiato percorso, innanzitutto, in secondo luogo con l'omino dell'ATM che avrebbe potuto informarmi del delirio e farmi risparmiare un biglietto.
La rabbia monta e si impossessa di me: penso a quanto questa città sia ridotta male, allo sciopero di ieri, alla manifestazione di sabato, a quella di giovedì, alle vecchie sul tram che maledicono gli extracomunitari senza motivo, all'indifferenza di tutti gli altri, a quelli con le cuffie bianche nelle orecchie, alle segretariette rinsecchite con gli stivali a punta modello El Charro (che si sveglino, sono fuori moda da mò) e le borse finte di Louis Vuitton, ai funzionari di banca che comprano Libero da Claudio, il mio edicolante - che poi si lamenta con me.
Penso queste e altre cose e non faccio in tempo a pensarne altre ancora che finalmente arriva un treno.
Come previsto parte l'assalto alla diligenza, come nei migliori film western, ma qui, a Famagosta, il ruolo degli indiani è interpretato egregiamente dalla folla civilissima dei cittadini milanesi.
Che bella parola:
civile.
Leggo la definizione sul Garzanti online: "educato, cortese, decoroso:
maniere civili;
persona civile | (
estens.) misurato, elegante."
Ok, l'Italia non è mai stato un paese
civile, ma quanto soffro a vederla ridotta così.
E non è la solita storia del piovegovernoladro.
Mi fa male vedere il disfacimento, il degrado delle nostre vite, mi commuovo alla vista di un Paese che così cattivo non è mai stato, altro che ottimismo.